Arte, Concorso di Emoz. 2010

Concorso di Emozioni, il bel canto della primavera

Fai di me un vestito di alghe e coralli
di spuma e di baci nel tuo mare d’amore

Il bel canto della primavera. L’usignolo annuncia la mite stagione dei fiori. Comincia la sesta edizione del CONCORSO DI EMOZIONI.
Racconta la tua storia d’amore! Un amore sognato, un amore vissuto, un amore nuovo. Condividi belle emozioni d’amore nel Blog Manuale di Mari!

Puoi partecipare in modo del tutto gratuito postando per un mese, fino al 18 aprile, direttamente nei commenti di questo post poesie, racconti e parole per una canzone d’autore. Gli autori di opere edite possono partecipare anche con poesie e brevi brani estratti dai loro libri.

Quest’anno, nella nuova sezione “Poesia e Musica”, curata in collaborazione con la VS Records, etichetta discografica indipendente, le tue parole potranno diventare anche il testo di una canzone d’autore!
Il nome dell’autore del testo scelto per creare una nuova canzone sarà comunicato nel corso della manifestazione “Cantautori Bitontosuite – Premio Nazionale Musica d’Autore” (23 e 24 aprile 2010).

Durante lo svolgimento dell’Iniziativa Punto Flora donerà un fiore, un giglio bianco o una rosa rossa, agli autori delle opere selezionate dalla Redazione.

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Alcune raccomandazioni.

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Immagine: Dallo spot Una storia italiana della Banca Monte dei Paschi di Siena

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Pubblicato da Robert

Robert, autore del Blog Manuale di MariPoesie e Storie d’amore e direttore editoriale del Portale Manuale di Mari. Ha ideato e lanciato nel 2005 il Concorso di Emozioni. Nello stesso anno ha creato il Blog degli Autori. Nel 2009 ha ideato e lanciato con Nicla Morletti la Fiera dei Libri on line.

1.704 pensieri su “Concorso di Emozioni, il bel canto della primavera”

  1. Antonella dice:

    Il mio cuore era ridotto a poco più che un guscio di noce vuoto. Batteva per inerzia perché sapeva che quello era il suo compito e lo svolgeva così, senza infamia e senza lode. Avevo chiuso con gli uomini, tutti gli uomini e ormai li dividevo in due categorie: quelli che mi avevano ferito e quelli che lo avrebbero fatto.
    Il lato positivo della faccenda era che dopo tutte quelle bruciature riuscivo a relazionarmi con loro “da amica” senza coinvolgimenti emotivi e mi ero scoperta abile consigliera nelle loro faccende amorose. Insomma, ero un po’ una Hitch al femminile e non mi sentivo in colpa per questo perché molte volte le loro prede si trasformavano in compagne per la vita. Solo io volevo continuare a restare sola, tanto l’amore era solo un’inutile complicazione, ma non avevo fatto i conti con il destino che era deciso a giocarmi un tiro mancino. Di corteggiatori ne avevo molti: persone che all’apparenza erano “ottimi partiti” ma non per me, io volevo di più perché cercavo la perfezione.
    Ma esiste la perfezione?
    Certo che esiste. Ti incrociai per caso per la strada. Eri un mix di sensualità ed ingenuità, con il sorriso accattivante e gentile. Eri il mio esatto contrario: classica bellezza mediterranea, alto, dagli occhi color cioccolato. Forse per questo mi sei subito piaciuto: mi ricordavi il cioccolato fondente che ho sempre adorato.
    L’unico neo: eri il ragazzo più desiderato della città. Tutte spasimavano per te, tutte volevano uscire con te e venivano a chiedere a me come poterti conquistare. Ricordo che ogni volta era una sofferenza: ormai eri diventato il mio amico più caro e mio confidente e lo stesso valeva per te. Ricordo quante volte scherzando ti proponevo di incontrare questa o quell’altra persona che potevano essere perfette per te. E il mio cuore si stringeva ogni volta. Ero tua amica, ti volevo un bene dell’anima ed era mio compito desiderare che tu fossi felice, seppur lontano da me ma ciò non mi evitava il dolore. Scoprii che ti eri innamorato quasi per caso, in quella sera di maggio. Mi dicesti solo”non ci vedremo per un po’, uscirò più spesso con lei” e ovviamente lei era gelosa di me: non solo aveva avuto l’amore della mia vita, ma mi aveva rubato anche il mio amico. Ma non ero arrabbiata perché in fondo la capivo: anche io sarei stata gelosa al posto suo. Tu con me ridevi, scherzavi, raccontavi la tua vita…lei era “solo” la tua ragazza. Decisi di andare via, di non vederti più. Incrociarti per strada con lei mi avrebbe solo procurato sofferenza. E così passarono gli anni. Per caso ci incontravamo e per un attimo mi sembrava di ritornare ai vecchi tempi, ma tu stavi con lei e io non potevo permettermi di soffrire ancora per te.
    Ricordi quella sera di luglio? A quel concerto andasti da solo con i tuoi amici, io con la mia nuova comitiva. I nostri sguardi si incrociarono e per un attimo vidi (o forse immaginai?) una luce diversa. Non potevo permettermi di ricominciare a sognare di noi. Poi squillò il telefono. Eri tu: “perché non ci vediamo qualche volta? Ho bisogno di chiarire tutta questa situazione”. Allora era vero! Ci tenevi alla nostra amicizia proprio come ci tenevo io. Mi sarei fatta male, ma non mi importava: al diavolo tutti i problemi, io ti volevo nella mia vita perché avevo bisogno di te e non mi importava se solo come amico,mi bastava che tu ci fossi stato.
    Quella sera seduta al tavolino del bar scoppiai a piangere, ricordi? Ti dissi che mi avevi ferito, la realtà era che ero consapevole che una volta finita quella serata niente sarebbe stato più come prima perché tu mi avresti salutato con “ciao piccola” e sarebbe stato il nostro addio. Lo capivo dai tuoi silenzi che avevi solo bisogno di chiarire con me per chiudere definitivamente la questione.
    Mi riaccompagnasti a casa. Era ottobre ma la serata era meravigliosa, io scesi dall’auto e anche tu lo facesti. Per la prima volta il mio cuore inizio a battere veramente. Mi sorridesti e dicesti semplicemente “ti ho perso una volta, non posso permettermi di perderti di nuovo. Vuoi sposarmi?”tu fosti pazzo a chiedermelo e io fui pazza a risponderti di sì.
    Ecco la perfezione esiste: noi due non siamo esseri perfetti, ma i nostri difetti si incastrano a perfezione con i nostri pregi e insieme siamo una vera forza della natura e così dopo poco più di due anni da quella sera, finalmente tra due mesi coroneremo il nostro sogno che ha già il sapore di una favola.

  2. Il punto di non ritorno

    La luce cadeva di traverso dalle fronde degli alberi, poi si diffondeva, riflettendosi sull’acqua del mare, così azzurro, così verde, come una gemma liquida preziosa.
    Ero appena arrivata al villaggio turistico, ancora assopito, nel cuore di una lunga spiaggia bianca, in prossimità della giungla e delle montagne.
    Ero approdata ad un luogo remoto, sola come sempre, alla ricerca di quell’altra me stessa che avevo perso di vista da un po’ di tempo, da quando per l’ennesima volta la vita e i suoi eventi mi avevano fanno sprofondare in uno stato di apatia urbana e piatta, fredda con addosso tutta l’umidità di un inverno che dura troppo a lungo, che ti entra nelle ossa e non riesci più a mandare via .
    Ero arrivata ad un punto di non ritorno, era giunto il momento della fine o della svolta , ma né io, né mio marito sapevamo ancora dirlo.

    Un giorno, durante la pausa pranzo, avevo visto un’offerta sensazionale in un’agenzia di viaggi, lunghe spiagge e mari profondi, sole su tutta la pelle.
    Al rientro la sera ne parlai con Pietro, mio marito, ma lui, come sempre, travolto dagli impegni inderogabili del suo lavoro, per l’ennesima volta mi lasciò a bocca asciutta, con un consueto: “Non posso, credimi, ma se lo desideri ci puoi andare da sola o con qualche tua amica…”, così determinai un qualcosa che in cuor mio avevo già deciso.

    Con l’agenzia avevo organizzato il viaggio e la vacanza nei più minuti dettagli, così quando arrivai a Jakarta, la capitale dell’Indonesia, impiegai un altro giorno per giungere ad una piccola isola dell’arcipelago indonesiano.
    All’orizzonte s’intravedeva la linea bianca della spiaggia, le colline fitte di alberi. Le case erano di tek e paglia, con tetti dalle tegole rosse, lo stesso rosso della terra.
    Vicino al mare c’erano dei bungalow, con stanze ariose, porte e finestre che si aprivano su verande ombrose.
    Venti giorni tutti per me!
    La notte dormivo al suono delle onde e al mattino mi immergevo in acque limpide e trasparenti come l’aria.

    Non riuscivo a cancellare la distanza dai sentimenti che provavo per mio marito, volevo sentire la sua voce e le sue mani, ma poi pesante mi cadeva addosso la consapevolezza che anche a casa, seppur presente, lui non c’era. Mi aveva lasciata da sola, per anni ed io mi ero persa.

    Adoravo fare piccole immersioni, mi piaceva rimanere sospesa in quel silenzio azzurro, io e il mare abbracciati e vivi più che mai.
    La sera mangiavo pesce alla griglia, con gli altri ospiti del villaggio e bevevo vino ambrato in un grande calice. Si festeggiava, mentre il tramonto incendiava d’oro e di rosso il mondo.
    Gli animatori accendevano i fuochi nelle noci di cocco, ballavano e cantavano, la serenità ci avvolgeva con un manto di tranquillità.

    Mi tornarono alla mente i primi anni di matrimonio, quel forte legame che ci univa, eppure io bruna con gli occhi marroni e lui biondo con gli occhi azzurri, una strana e perfetta coppia di opposti.

    John, un animatore inglese, mi prese per il braccio e mi invitò a ballare. Il mio inglese scolastico ed arrugginito, era alquanto scadente, ma lui riuscì comunque a strapparmi un sorriso. John conosceva un po’ d’italiano e così tra un ballo e un altro, ci siamo divertiti inciampando su concetti che riuscivamo comunque a condividere.
    La mattina successiva lo trovai davanti alla porta del mio alloggio con un cioccolatino in mano e un fiore d’azalea fra le labbra.
    Una piacevole sorpresa che mi turbò. La notte avevo dormito male, il pensiero tornava a lui, alle sue robuste braccia, al verde dei suoi occhi, ai folti capelli castani, lunghi fin sopra le spalle.
    Sicuramente doveva essere più giovane di me ed io a confronto, con addosso la bellezza di 35 anni suonati, mi sentivo un po’ vecchia.
    Mi prese per mano e ci avviammo verso la foresta, lasciando il villaggio alle nostre spalle, ad ovest la scogliera, una roccia ruvida ed aspra che scivolava via sotto l’acqua limpida.
    Attraversammo il bosco, tra il fogliame lussureggiante, palme, piante di cocco e di mango, fino a giungere ad una strada che si apriva su un villaggio. Mi condusse ad un edificio dalla struttura molto semplice, vicino alla porta c’era un ibisco e altri fiori tropicali che lasciavano nell’aria una fragranza densa e pesante nella calura del giorno.
    All’interno c’erano persone che leggevano, altre che chiacchieravano. Ci siamo seduti su una panca e abbiamo fatto colazione con caffé, frutta e fette di pane.
    Questo giovane uomo che mi stava seduto di fronte, che parlava sorridendo, era un perfetto estraneo, eppure il suo sguardo mi catturava, aleggiava in me una strana sensazione, mi sembrava di conoscerlo da sempre.
    Volevo vivere la mia vacanza in libertà, senza regole, sconfiggere almeno per una volta, quelle imposte da mio marito, dalle mie prigioni, dagli isolamenti dei molteplici silenzi che Pietro non aveva mai ascoltato.

    John parlava di musica e poesia, aveva la freschezza frizzante di chi si aspetta molto dalla vita, mentre io mi sentivo l’anima racchiusa in una cantina ammuffita.
    La lampada delle mie disillusioni aveva accecato ogni parvenza di sogno.
    Ci siamo alzati e dopo aver passeggiato un po’, ci siamo seduti su una panchina che s’apriva all’immensità dell’oceano.
    Il sole era alto e l’aria era piena di suoni che non conoscevo, versi d’uccelli, ronzii d’insetti e movimenti di animali impercettibili.
    Intorno a noi conchiglie frantumante risplendevano di microscopici arcobaleni.
    Lui parlava di come amava questo posto, della sua passione per il mare.

    Ebbi una sensazione di struggimento, per quello che mi stavo avvicinando a comprendere, uno struggimento per l’attimo sfuggente e bellissimo che stavo assaporando e che avrei dovuto lasciare:
    momenti di condivisione, mentre io e Pietro la sera stavamo seduti sul divano quasi senza parlare, sprofondati nelle nostre vite staccate.
    Io e John in quel momento stavamo contemplando la perfezione della natura e per un attimo sfiorai con un dito la felicità.
    Adoravo la sua voce, il modo in cui pronunciava Teresa, il mio nome.
    Camminavamo silenziosi mano nella mano mentre un’inquietudine mi turbava.

    I riti della vacanza s’alternavano a momenti di riposo assoluto, d’immersioni e d’esplorazioni frequenti.
    Spesso andavo sul bordo della scogliera a guardare l’acqua, con quel vento caldo nei capelli, l’abisso del mare era ad un passo dall’abisso che mi squarciava il cuore.
    Il fatto di non incontrare John era voluto.
    Si erano spente le speranze taciute a me stessa. Quando mi addormentavo sognavo le onde del mare che s’infrangevano l’una su l’altra sulla battigia.
    Ogni tanto lo intravedevo mentre correva sulla spiaggia con un gruppo di persone che ridevano a crepapelle e lui di sottecchi mi faceva l’occhiolino.
    L’ultima sera abbiamo bevuto birra attorno al falò, ero un po’ brilla, John era alla seconda, qualcuno propose di fare un bagno.
    Tra le risate e l’allegria un po’ smorzata da una sottile tristezza per la partenza imminente, senza pensarci sopra, m’incamminai verso la riva e lui era al mio fianco.

    Nell’acqua le sue mani sfiorarono i miei fianchi e avvicinò il suo corpo al mio.
    Le nostre mani si toccarono. Affondò le labbra sul mio collo e la passione mi travolse.
    Nuotammo per raggiungere una spiaggia nascosta in un’insenatura isolata, ci togliemmo i costumi.
    Sulla spiaggia, a metà tra il mare e la sabbia, ci siamo uniti, con l’acqua che sfuggiva da sotto le nostre schiene. La luce delle stelle fluiva sopra la nostra pelle, sopra le mie gambe, sulla sua fronte, sulle nostre labbra. Restammo abbracciati così, a lungo, con i nostri corpi a contatto.
    Non sapevo cosa aspettarmi, ma speravo che mi dicesse di rimanere, di tagliare col resto del mondo.
    Quando si mise a sedere mi disse: “Finita la stagione torno in Ighilterra”, mi baciò nuovamente e mi accarezzò il viso “Teresa sei bellissima…”.
    Poi rimase solo il rumore delle onde.
    Restai con il buio, sperando di diventare invisibile, di confondermi nell’oscurità.
    Il senso confuso di perdita mi si parò davanti come un abisso.
    L’oscurità abbracciava cielo e mare, pesante come un macigno, occultando la stanza segreta dei miei desideri. Il vento calmo di quella notte mi accarezzò i capelli.
    Tornai al bungalow, le valigie erano già pronte.
    Pensai a Pietro, al mio rientro e al punto di non ritorno che mi aveva squarciato l’anima.

  3. daniele gangemi dice:

    DUBBI
    Chissà se un giorno
    troverò di nuovo
    il coraggio
    di dar voce alle melodie
    del mio cuore.
    La mia lira
    simile a quella che vinse l’Ade
    un tempo vibrava
    lucente
    Ora giace sul mio comodino
    impolverata.

  4. daniele gangemi dice:

    L’AMORE
    L’inesprimibilità ai molti
    del supremo sentimento umano
    si fa comunque
    Sudore
    Battito
    Gelo
    Dalle labbra serrate a morsa
    nessuna parola
    E improvvisamente
    la ragione
    cede il passo
    al cuore
    folle
    per la vittoria.

  5. daniele gangemi dice:

    IN RICORDO DELL’AMOR
    Mi cingesti d’amor vitreo e vipereo.
    Ti vestivi inutilmente d’erculea forza
    ciecamente inebriato
    mi prostravo ai tuoi piedi
    come condannato in limine.
    Ora rimembro con precisione:
    al principio ti avvicinasti
    maestosa puledra solitaria
    in cerca di domatore.
    Volteggiasti con inganno nell’erme praterie
    del mio cuore inerme.
    Presto tramutasti in boa che avvinghia
    pallida preda
    incosciente del funereo destino.
    Ti sussurrai Amor
    tu ricambiasti stringendo la morsa.
    L’inganno fu durevole:
    paonazzo
    gonfio per lo sforzo
    con rossi occhi rigati come fulmini nel ciel sereno
    mi svincolai inutilmente.
    Il sopraggiungere di passi ti fece distogliere
    per un attimo
    la presa.
    E finalmente potei riabbracciare la Vita
    soave, unica, estranea.
    Ora che il Tempo mi è amico
    tocco senza timore
    le ferite indelebili
    non più dolenti.

  6. NELLA GRANDE LUCE DEL PERDONO

    Un salto nel buio,
    mi manca il coraggio di volare,
    il coraggio di dimenticare,
    il coraggio d’amare.
    Non voglio!
    Non posso!
    Resisto.
    Eppure basterebbe un attimo
    ed in quell’attimo, l’oblio di una vita.
    All’improvviso,
    però,
    apro le ali,
    le mie,
    le più grandi!
    Fresche rugiade sconosciute,
    impalpabili essenze d’amore
    ricoprono il mio corpo completamente nudo
    e, solo adesso,
    incredibilmente leggero…
    Volo!
    Volo in una dimensione senza tempo, né spazio.
    Volo sui ricordi più bui.
    Volo sui pregiudizi.
    Volo sulla paura d’amarti.
    Volo!
    E dolcemente approdo in un abbraccio di luce.
    Non ricordo più nulla e non vedo più nulla
    all’infuori del tuo viso stagliato
    nella grande luce del perdono.

    Marina Maria Iosè Riotto

  7. Sarai un uomo
    che ha tanto lottato
    sarai un bambino
    finalmente cresciuto
    sarai tu il sogno
    e la tua realtà
    sarai tu la vita
    sarai, si sarai…

    (per poesia e musica)

  8. roberto dice:

    * Io sono *

    Per molti non sono nessuno
    anzi
    sono uno dei tanti
    Racconto la vita
    quella mia
    quella che ogni giorno trascorro
    spiego di getto
    d’istinto posto in versi
    non rime baciate ne rime degne di poeti ben più autorevoli
    Sono uno de tanti
    così però mi piaccio
    e così ad alcuni trasmetto le emozioni mie
    Sono uno dei tanti
    non un numero uno
    e nemmeno un numero due
    sono uno dei tanti
    Vivo e comunico a volte in versi a volte in scritti
    ma sempre e solo emozioni vissute
    tristi e meno tristri
    Sono uno dei tanti
    che si mescola a gioie e dolori
    amori e tradimenti
    passioni e pentimenti
    e allora racconto
    e racconto il vero
    il vero mio
    Vivo tra tanti
    e sono uno dei tanti…

  9. riccardo dice:

    RICORDI TRA IL VERO E IL FANTASTICO DELLA MIA GIOVENTU’

    Una delle cose più appaganti per me è camminare nei boschi . Ricordo quando ero ragazzo le storie che mi raccontava la Nonna , di cosa fosse un bosco al tempo dei Nonni dei suoi Nonni ,quanta illusione e fantasia, una Nonna poteva creare raccontando dell’effetto che il sole poteva emanare sposandosi con il buio degli alberi.
    Non mi è mai capitato di vedere un elfo, ne una fata ne altro spiritello del bosco,tuttavia, la mia Nonna mi diceva di guardarmi dalle streghe cattive ,mentre attraversavo quei boschi che
    per noi ragazzi ,erano la nostra principale fonte di gioco.
    Le streghe per noi era rappresentate da una coppia di persone ,del mio paese, non ho mai saputo il grado di parentele , chi diceva fossero marito e moglie, chi due fratelli, fatto sta che per noi erano la rappresentazione della strega e del diavolo nella nostra immaginazione in quella casupola sulla strada che dalla valle del mulino porta al paese di fronte ,succedevano cose terribili, e noi quando di ritornavamo dai giochi, davanti alla casa correvamo, e alle volte la paura era tanta che ci faceva sentire urla, e risate che facevano venire i brividi, come se in quella casa si facessero festeggiamenti abominevoli lontano dagli occhi dei profani, e certe sere guardando dalla finestra della mia camera mi sembrava di vedere dei roghi sicuramente erano sterpaglie che bruciavano , ma per la mia immaginazione di bambino potevano essere
    chissà cosa magari anche riti malefici o chissà cosa altro peggio.
    Noi davamo molto credito alle superstizioni della gente del paese, che mai dalla nascita si era
    allontanata da questi posti, eppure fu in quei boschi intrisi di credenze che avrei passato la mia gioventù senza allontanarmene.
    Inutile dire che nell’attraversare il bosco non mi sentivo solo, ma questo era piuttosto normale, quando l’unica fonte di luce erano i raggi del sole che le foglie lasciavano filtrare, tutto il resto può essere intravisto solo con gli occhi dell’immaginazione, voglio raccontare una storia che mi e capitata in quei boschi, diciamo un poco inventata ma nelle parti più importanti vera.
    Attorno a me vi era solo il rumore di un leggero venticello che cantava tra gli alberi e a due passi di distanza c’era il fiume a sbarrarmi il cammino, il passaggio era un piccolissimo sbarramento che serviva per deviare l’acqua del fiume nella roggia che portava l’acqua per fare funzionare il mulino e la segheria.
    Quando l’ebbi attraversato la luce del Sole appariva più intensa, tanto da illuminare quel tratto di bosco come lo sarebbe un parco pubblico nel ventunesimo secolo, e la cosa più strana erano i giochi di luci ed ombre che mai si fermavano, ma continuavano a inseguirsi tra gli alberi fitti.
    Improvvisamente sobbalzai nel sentire voci ambigue e d’istinto mi nascosi dietro il fogliame fitto. Poco più in là scorsi chiaramente le figure della copia che abitava nella casina della streghe , che trascinavano il cadavere di un uomo con il volto completamente irriconoscibile. All’inizio pensai ai che due briganti, astuti assaltatori dei boschi e delle strade di campagna, però ripensandoci bene da noi non si era mai sentito di gente assalita da briganti ,e banditi, queste cose succedevano solo nei nostri giochi di bambini , la prima cosa che notai era il volto dell’uomo, rude e invecchiato, provato da una vita faticosa, i capelli sembravano ormai i peli arruffati di un cane randagio, e le vesti sembravano quelle di un poveretto, un
    contadino probabilmente. La donna mostrava anch’ella povertà nella presenza ma al contrario era giovanissima, una fanciulla che nessuna mano aveva ancora deturpato e il cui corpo comincia appena a prendere le forme di una giovinetta, Poi all’improvviso dal bosco apparve una terza persona, che doveva essere la madre, era agghindata in un manto azzurro ricamato finemente che solo una donna ricca poteva concedersi.
    Quest’ultima scoprì il suo viso calando il cappuccio celeste, mostrando così un volto inondato dai raggi del sole, i capelli erano di tenebra e gli occhi di un azzurro cielo profondo e intenso, costei nella sua immensa bellezza sembrava portare nei tratti della sua persona le caratteristiche stesse di quegli strani boschi, l’ombra nera dei suoi capelli giocava insieme al candore della pelle, gli occhi erano vivaci sebbene velati di tristezza, proprio come il fiume che in quel momento pensai essere un limite tra due mondi.
    Fu, infatti, soltanto guardando quella figura surreale avvolta nella veste azzurra che cominciai a pensare di essermi imbattuto davvero nelle streghe o nelle fate ,che tante volte mi aveva raccontate la Nonna .
    Che il tuo corpo inondi la terra rendendola fertile e viva, disse la donna con voce solenne mentre posava a terra quella figura senza volto che avevano trasportato fino li,cosi dicendo mentre faceva questo rituale accese il fuoco, li capii che era un fantoccio di paglia, non un cadavere di un uomo, poi la donna riprese a parlare dicendo:che le tue ceneri possano benedire la terra e darci un raccolto abbondante quest’anno,in quel momento realizzai che non c’era proprio niente di malefico in quelle persone, ma stavano facendo un rito propiziatorio per la stagione del raccolto.
    Qualcosa di misterioso accadde in seguito a queste parole, e non nel modo in cui le cose accadono normalmente, era qualcosa che potevi avvertire solo sulla tua pelle.
    Poco dopo la donna bellissima ordinò che il pupazzo bruciato e sottoposto ai riti propiziatori fosse
    gettato nel fiume, l’uomo e la ragazza si affrettarono a lasciare la bella signora, la più giovane poco prima di andar via le si avvicinò e disse <>, La Donna attraversò il fiume e il candore del Sole scomparve dal suo volto.
    Mi affrettai a seguirla silenziosamente tra gli alberi, nonostante d’altra parte fossi indeciso se continuare a seguirla o fare ritorno a casa riprendendo il sentiero.
    Il bosco nel frattempo diventava sempre più buio e muoversi nel fogliame senza causar rumore era ormai impresa ardua. Presto la mia impazienza di seguire quella figura prese il sopravvento, e lo fece attraverso un idea che è azzardato definire brillante, così piombai dinnanzi a quella donna e sfilando un finto il pugnale di legno le intimai di fermarsi.
    La donna urlò ,e aggrappandosi ad un albero chiese spaventata:chi sei cosa vuoi da me? perché mai mi spaventi così in mezzo al bosco puntandomi quell’arma addosso?.
    Ma il bello che in quella scena tragicomica ,uno spettatore non sarebbe riuscito a capire che era il più impaurito dei due, lei che gridava terrorizzata ,io che ad un certo punto ho iniziato a correre verso casa e ancora oggi non ricordo come feci ad attraversare il fiume .
    Da quella volta mi sono tenuto alla larga da quel bosco , e per recarmi a pescare dall’altra parte del fiume facevo un giro lunghissimo, tanta era la paura, ma non di quelle persone che avevo ormai capito anche se un pochino strane erano persone come me, ma della magra figura che avevo fatto spaventando a morte quella signora.
    Poi un giorno avevo ormai sedici anni ,ad un torneo di calcio mi innamorai di una bellissima ragazza di nome Maria Rosa, una sera mi chiese di accompagnarla a casa perche essendo ormai calata la notte aveva paura, mentre scendevamo la lunga scalinata che dal paese di fronte al mio portava alla casa della ragazza, mi spiegava una strana storia che era capitata alla madre,tanti anni prima, era capitato che lei la Mamma e il suo Babbo si erano recati nel bosco per celebrare uno strano rito che facevano tutti gli anni.
    Per propiziare il raccolto,loro compivano un rito che hai suoi occhi di bambina sembrava magico, ma era legato al tipo di concimazione che faceva il padre.
    Poiché nel bosco il padre sotterrava dei corni di bue pieni di un particolare concime, era usanza loro di recarsi , alla fine dell’Inverno nel bosco , per dissotterrare questi corni, e siccome il bosco era molto buio e a volte il terreno era ancora gelato portavano con loro uno spaventapasseri di paglia per riscaldare il terreno nel caso fosse ghiacciato,il tutto facendolo sembrare un rito magico per i suoi giochi di bambina, fu cosi che un giorno dopo aver fatto il rito della raccolta del concime lei e suo padre si incamminavano verso casa,e la madre si stava dirigendo verso il paese per fare la spesa udirono un grido di terrore corsero pensando fosse capitato qualche cosa di grave alla madre, una volta raggiunta la donna ancora terrorizzata , racconto di avere visto apparire uno spirito cattivo del bosco con un coltello in mano, ma
    cosa strana era più impaurito di lei tanto di fuggire a sua volta .
    Potete immaginare come mi sentivo io mentre la ragazza mi raccontava quella storia, e ancora di più al momento che arrivammo davanti alla sua abitazione, che ormai avevo capito ,era quella che da ragazzi noi chiamavamo la casa delle streghe.
    Ora non è rimasto più niente di quella casa ,Maria Rosa è rimasta nei miei ricordi più belli ,alla voce primo Amore, ma è bello ricordare a distanza di tanti anni ,questi momenti felici e spensierati, che porto nel cuore come una fotografia, questo racconto è nato ,per ricordare che in quei posti una volta abbandonati, all’incuria, oggi si sta creando un parco ,e anche ripristinando una vecchia ferrovia, e spero tanto un giorno possa fare ritorno nella mia valle ,per ricordare passeggiando le avventure tra l’immaginario e il vero vissute nella mia gioventù.

  10. “Non fare del male a Sabrina,” aveva detto la mamma morente “promettimi che non gliene farai.” E lui l’aveva promesso, su Allah, sul suo Dio e sul nostro, che poi sono la stessa cosa, poiché uno solo può essere il Dio dei cieli e della terra.
    “Ti giuro che veglierò su di lei e la proteggerò.”
    Così Hassad, che non possedeva altro che il proprio vestito, che non aveva casa, né denaro, né lavoro, che era clandestino e dunque delinquente, secondo un’equiparazione falsa e razzista, fece una promessa che non sapeva come mantenere. Ma si era impegnato, giurando a sé stesso, di raccattare negli angoli delle strade le speranze disperse, per curare le ferite che il mondo aveva inferto a quella povera ragazza, regalandole quel poco che aveva.
    E Sabrina, che aveva visto il padre morire sul lavoro, che era stata cacciata dalla sua casa, che credeva di morire il giorno stesso in cui aveva visto chiudersi gli occhi di sua madre, perché quelli erano i suoi stessi occhi e solo con quelli vedeva, si affidò a quella mano e le sembrò che la vita non fosse più così brutta.
    Ora erano al mare. La sabbia era bianca e la luna disegnava losanghe di luce sull’acqua.
    “Com’è il mare?” chiese Sabrina, mentre si sedeva sulla sabbia e piccoli grani freddi le scivolavano tra le mani. “Non è giusto che una persona attraversi questa vita senza sapere cosa sia il mare.”
    Hassad cercò lentamente le parole che potessero darle il senso di quell’immensità che le era negata.
    “Il mare non si può dire com’è. Il mare è acqua infinita, ed è di più, è movimento senza fine ed è di più. Il mare ha colori rubati al cielo e lascia specchiare la luna. Il mare è una curva lontana che segna il confine del mondo. Ma il mare è ancora di più, entra dentro, diventa parte di chi lo guarda, è la speranza di partire, è la certezza che la pace è possibile, è il sole che esce dalle onde e dice che, nonostante tutto, nonostante noi, da qualche parte lontana o vicina, Dio esiste.”
    “Hassad come fai a trovare parole così belle? Che gusto ci provi nel farmi commuovere?”
    I due giovani stavano sulla spiaggia, tenendosi strette le mani e sentivano i loro corpi toccarsi. Ascoltavano parole che i loro cuori riconoscevano e che non nascondevano altro che la loro felicità.
    Nel silenzio, si udì il richiamo di un uccello notturno.
    “Che colore ha il mare, Hassad?” chiese ancora Sabrina.
    Hassad vide i riflessi della luna sull’acqua e le disse del colore nero e di quella striscia luminosa che finiva sulla spiaggia, scherzando con le onde. E quella striscia era come un nastro che avvolgeva il mondo e lo rendeva bello, come un regalo di Natale, come un fermacapelli d’argento sulla testa di una donna, come una strada di luce che conduce dove c’è ancora spazio per i sogni.
    “Il mare dev’essere la cosa più grande che ci sia. Come mi piacerebbe, per una volta vederlo anch’io. Dimmi Hassad, cosa si prova di fronte a tanta acqua?“
    Hassad avrebbe voluto darle i suoi occhi. Avrebbe voluto strapparsi quegli occhi che avevano visto dolore e miseria, sporcizia e crudeltà, che aveva chiusi per la vergogna e l’impotenza di fronte alle miserie della sua gente e regalarglieli, perché potessero riscoprire la bellezza dimenticata e raccontarla al mondo.
    “Sono sporca Hassad, non è assurdo rimanere sporchi con tanta acqua?”.
    “Vuoi bagnarti? Puoi farlo se vuoi.”
    “Oh dio, se lo vorrei, ma non ho un costume, non ho niente.”
    “Non c’è nessuno. Siamo soli, Sabrina, non senti che c’è solo il rumore del mare?”
    Allora lei si tolse i vestiti laceri, si tolse tutto e restò nuda nella luna mentre un brivido di felicità le attraversò la schiena.
    “Come sono Hassad?”.
    “Sei la creatura più bella che la luna abbia mai illuminato.”
    “Ti sei spogliato?” chiese Sabrina.
    “No.”
    “Allora fallo anche tu!”
    Sentì che Hassad si toglieva i vestiti e poi la sua mano sicura che la conduceva verso l’acqua. I loro corpi erano luminosi come quelli degli angeli. Quando sentì il rumore del mare vicino, Sabrina gli lasciò la mano e si mise a correre. Corse verso quel leggero ritmico fruscio, verso l’odore fresco di salsedine, ridendo di felicità. Sentiva Hassad che le correva dietro. Tutta la vita, tutta l’emozione, tutto l’amore confluiva in quell’unico momento. Due corpi bellissimi che corrrevano verso il mare, che si lasciavano bagnare dalle onde, ridendo e inciampando, abbracciandosi e lasciandosi.
    Niente è perduto se così assurda e improvvisa può nascere dal nulla la felicità.

    Tratto dal Romanzo “Ombre” di Renato Fiorito Ed. il miolibro in vendita nelle librerie Feltrinelli e nel sito “laFeltrinelli.it”

  11. Regalami una poesia

    Regalami una poesia
    Mary
    perché il buio
    abbia parole amiche
    e non ci sia bisogno della luna
    per ingannare il cuore.

    Regalami frasi nuove
    Mary
    che annuncino altre stagioni
    portate dal maestrale
    col polline dei fiori
    e i profumi dei monti
    per diventare carezze.

    Regalami una canzone,
    Mary,
    che sia canto di allodole
    e tunica bianca
    a rivestire i monti
    sicchè io sappia finalmente
    appartenerle
    e appartenerti.

    Regalami parole dolci
    Mary
    che abbiano lunghe braccia
    e dita sottili
    che accarezzino lievi
    il mio dolore
    con unguenti d’oriente.

    Regalami una poesia
    Mary
    fatta di labbra rosse
    e bianchissima pelle
    e fluenti capelli
    in cui stanotte
    affondare il viso.

  12. Energia d’amore

    Ti ho sentito nel cuore,
    nel corpo e nell’anima, la tua energia d’amore
    mi scorreva dentro e si univa alla mia
    diventando una.
    Insieme vibravamo d’estasi nell’aria
    nel vento, tra boschi profumati
    di piacere infinito.

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