Enzo Canozzi è nato a Magliano (Lucca). Entrato nei Frati Cappuccini è ordinato sacerdote nel settembre del 1970. Nel gennaio del 1971 parte missionario nel Nord della Repubblica Centrafricana, dove rimane per oltre trentacinque anni. Qui si è occupato dei poveri aiutandoli nella loro lotta per la giustizia e la dignità umana, in luoghi dove la dignità umana pare non esistere più. Con loro ha creato più di 30 scuole, perché l’ignoranza, o meglio la non conoscenza, è causa del sottosviluppo. Si è occupato anche di centri di formazione femminile e di formazione cristiana, andando di villaggio in villaggio, aiutando i più bisognosi, donando il suo cuore ai poveri e agli umili con quella sua grande anima e con quelle sue grandi mani colme di bene per l’umanità.
Questo suo libro dal titolo “Meravigliarsi in Africa” è bellissimo e toccante nella narrazione della sua vita di Missionario con le numerose avventure che l’hanno attraversata in trentacinque anni di intenso lavoro. Quando Padre Canozzi partì per l’Africa con un altro giovane frate di nome Leone, salendo sul primo aereo della sua vita, in valigia aveva due grosse pagnotte di grano, fatte dalla sua mamma, perché “in Africa non c’è il pane”.
“Viaggiando – spiega Canozzi – portavo sempre un africano con me, anche se analfabeta, perché aveva la resistenza di chi è vissuto sempre nelle emergenze, da cui mi aiutava a uscire come Dio solo sa… Con lui vivevo uno stupendo equilibrio: io ero un bianco che faceva discorsi difficili e parlava di un mondo sconosciuto; lui era il nero che, senza tanta prosopopea, mi dava lezioni di vita pratica con il sorriso sulle labbra e le mani sporche.” Canozzi, che si definisce un missionario itinerante è un uomo dalle doti non comuni, una persona che ha donato tanto e questa sua narrazione di case nei villaggi della savana vicini alla grande foresta, tra piantagioni, piogge e caldo, è straordinariamente ricca di nozioni, emozioni e commovente al punto da far venire un groppo in gola. Come può un uomo fare tanto? Quale forza misteriosa può spingere un uomo a donare se stesso agli altri e a fare il bene, soprattutto in un paese straniero, così lontano, così travagliato, con tante vite umane da salvare? La fede, sicuramente una fede grandiosa, quanto grandioso è l’universo che Dio ha creato. Tra i tanti passi del libro che mi hanno catturato l’ attenzione c’è n’è uno in particolare in cui Padre Enzo Canozzi scrive: “Ci sono delle persone che ad ogni incontro le scopri sempre più belle nella loro anima. Ti rivelano aspetti nuovi del loro essere, panorami meravigliosi del loro spirito.” Così Padre Enzo Canozzi è per me. Nicla Morletti
Anteprima del libro
“L’Africa è lontana vista dalla luna”
Mi hanno detto in tanti: “Enzo, scrivi la tua vita di Missionario in Africa”, ma più precisamente capisco che mi vogliano dire di scrivere le innumerevoli avventure o semplici fatti di vita che ho vissuto in 35 anni. Allora faccio come il nonno: c’era una volta un giovane, sbarbato frate cappuccino, che partì da Genova il 31 gennaio 1971. Con lui un altro giovane frate che si chiamava Leone, “bellissimo“, dicevano alcune ragazze della mia parrocchia, che lo conoscevano, perché veniva sempre a casa mia. Lui, per fortuna, non sapeva che qualcuna di loro teneva la sua foto tra gli “idoli” degli impossibili amori di ragazzina.
Prendemmo il primo aereo della mia vita da Genova per Parigi. Nelle valigie c’erano anche due grossi pani di grano, fatti dalla mia mamma, perché “in Africa non c’è pane”.
Immaginiamo la trepidazione dei cuori materni che vedevano partire i propri figli, belli e generosi, per un paese “senza pane”! Tra le altre cose c’erano vestiti e libri e qualche pacchetto misterioso, inviato da parenti ai missionari che erano già in Centrafrica. Erano tutti stranamente rotondi, perciò conclusi che potevano solamente essere dei papiri o pergamene, ma dall’odore sembravano piuttosto salami e coppe.
Scherzi del destino: colui che spedì i miei bagagli disse: “Padre, ha venti chili in più, ma siccome è missionario vada pure”. Guardai il nome scritto sulla sua tuta: “Bischero”. Per me, che sono toscano, quel giorno, quella parola cambiò di significato.
Insieme a noi prese l’aereo un frate carmelitano scalzo: Nicola. Aveva un paio di scarpe, anche se sui documenti risultava “scalzo”. Poi, quando durante il viaggio ci conoscemmo meglio, capii la sua filosofia: “i missionari in fatto di fede sono dei cavalli di razza, ma per la morale…”. Lui la sapeva più lunga di noi, perché aveva già fatto 10 anni di missione in Giappone.
Atterrammo a N’Djamena, la capitale del Ciad. La notte, all’Hotel della compagnia, fu disastrosa. C’era un caldo terribile, sciami di zanzare, gabinetti senz’acqua che puzzavano d’orina, come quelli dei “carrugi” della vecchia Genova.
Alle tre partimmo dall’aeroporto, con un piccolo DC3 dell’ultima guerra, che doveva portarci a Moundou. Lì ci sarebbero stati certamente i missionari del Centrafrica che venivano a prelevarci ed avremmo fatto il resto del viaggio in macchina.
Sonnecchiavamo, quando Leone mi disse: “Enzo, guarda che paese s’incomincia a vedere! È tutto nero e gli alberi delle foreste dove sono? Ci hanno fregato!”.
Effettivamente, con la prima luce, lo spettacolo non era dei migliori: tutto nero e qualche traccia un po’ più chiara. Poi capimmo che era tutto bruciato e che le tracce chiare erano le strade ed i viottoli. I nostri compagni di viaggio erano tutti più loquaci di noi. Parlavano francese; avevano dei calzoni corti color cachi e dei “caschi coloniali “ di stoffa dello stesso colore. Molti di loro stringevano tra le gambe dei fucili da caccia grossa; tutti i bagagli erano tenuti sulle nostre teste da robuste reti. A quei tempi eravamo tutte persone oneste: i fucili servivano per “divertirsi ad uccidere le bestie”, ma solo quelle feroci.
Il bello venne dopo una mezz’ora di viaggio: un filo di liquido colava dal motore di destra. Una lamiera dell’ala sbatteva schiodata come quelle delle vecchie stalle del mio paese, ma non era grave.
Quel liquido, sì. Dopo un “concilio di paura”, decidemmo di avvertire il pilota.
Io ero il “professore” di francese, perciò andai. La cabina era separata da una tendina mezza tirata. Bussai sulle spalle del pilota e gli dissi di venire a vedere. “Non è niente di grave; è l’olio del motore”. “Come”, replicai, “se è l’olio del motore, il motore è fottuto!”. “Sì”, mi rispose, “ma con un motore solo si può arrivare lo stesso”.
Avevo fatto una confessione generale prima di partire; però di morire come un topo non mi andava davvero. Pregai in silenzio, Leone e Nicola facevano lo stesso, ed i nostri occhi erano fissi su quel filo di liquido, che sembrava diventare una cordicella.
L’olio sporcava l’oblò. Poi finì. L’elica girava senza forza, come quella dei giocattoli dei bambini.
Ogni tanto ci guardavamo.
“Forse la scampiamo”, dissi. Appariva infatti lontano il fumo ed il luccichio dei tetti di lamiera d’una grande città: Moundou.
Non so quanto tempo sia durato quel viaggio, ma non l’avrei più dimenticato. Una volta scesi, l’aereo doveva continuare per Sahr, ma restò sulla pista. Perché anche il secondo motore era grippato. E poi dicono che Dio non c’è!
A prenderci c’era Fra Agostino Delfino, Superiore della missione, poi Vescovo di Berberati. Aveva una piccola 3 cavalli Citroen.
Era incavolato perché Fra Felice non arrivava con l’altra 3 cavalli. Era rimasto addormentato. Cosa che gli succedeva spesso. Quando arrivò Felice, partimmo.
Leone ed io eravamo con lui, perché era nostro compagno di studi. Fumava una sigaretta dopo l’altra e quando prendeva i banchi di sabbia, che erano numerosi sulla strada non asfaltata, per noi era un incubo: la macchina ballonzolava da ogni lato o prendeva delle “panciate” continue sul gradino di sabbia che era tra le due tracce che gli pneumatici avevano scavato col traffico. “Oh! non c’è problema, tanto sotto c’è la placca di rinforzo”, diceva Felice e non diminuiva mai la velocità. Quando rallentò, restammo sollevati: le ruote non toccavano più.
Con Leone scendemmo a spalare e spingere. Sottovoce Leone mi disse: “Non è mica normale a guidare così. L’Africa l’ha rovinato!”. Forse c’era un po’ d’eccitazione dovuta alla gioia d’incontrarci, ma in seguito capimmo anche noi che se volevi uscirne, dovevi entrare nei banchi di sabbia ad 80 km all’ora. Anche noi diventammo, poi, “anormali”, per quelli che arrivavano in Africa la prima volta.
A quei tempi si cantava una canzonetta che diceva: “L’Africa è lontana, vista dalla luna…”. Non avrei mai creduto se non avessi visto con i miei occhi!
Quando parliamo d’ospitalità, parliamo della gente del sud come di coloro che ne sono maestri. Ma quel pranzetto favoloso che ci attendeva a Baibokoum, preparato con maestria ed amore da Fra Terenzio da Foggia, è rimasto nei miei ricordi, come il capretto d’Abramo nella Bibbia.
Spaghetti al pomodoro, melanzane sott’olio, peperoni scottati e salamino rossastro pieno di zenzero, venuto dalle Puglie, e vino nero, pastoso e possente. Mi domandavo a cosa servivano i miei pani che occupavano mezza valigia, ma non ne parlai. Li avrei mangiati tutto solo, magari, con il companatico di qualche lacrima pensando alla mia mamma ed all’Italia.
***
Meravigliarsi in Africa
di Frate Enzo Canozzi
2013, pag. 220
Marna
Che bello che deve essere questo libro soprattutto raccontato da un frate che in maniera genuina vuole trasmettere al lettore le sue emozioni e quanto ha vissuto. Mi piacerebbe molto leggerlo.
Mi ha colpito molto la descrizione, molto semplice, ma di effetto, perché con l’ironia e con il sorriso racconta di un mondo davvero lontano.. in cui tutto sembra “anormale”, anche se poi secondo me l’anormalità non esiste, perché ciò che è normale per me, per gli altri non lo è..
decisamente una descrizione e un racconto da leggere per capire quel mondo lontano con gli occhi di chi l’ha vissuto davvero.
Penso che leggere un libro così possa servire per farci riflettere su delle cose che sappiamo che esistono ma non riusciamo ad afferrare sino in fondo.
Un saluto
Barbara
Le cronache d’ Africa son meglio dei romanzi. E fra’ Enzo le svolge con maestria. Che aggiungere ? Leggere per documentarsi e trascorrere ore piacevoli in compagnia di avventure tutte vere.
Gaetano