Intenso, appassionante, coinvolgente, “Senza nome” di Pietro Speranza è un libro da leggere e che non si lascia dimenticare. L’autore tratta di temi attuali che coinvolgono migliaia di persone, come la sterilità della coppia. E dedica queste sue pagine a tutte le donne che affrontano, con coraggio e determinazione, la difficile prova della fecondazione in vitro. Un libro scritto magistralmente con cognizione di causa e che affonda nella radice dell’essere portando a galla sentimenti ed emozioni da tempo latenti. Ben affrontata la psicologia dei personaggi, accurate le descrizioni e la concatenazione di fatti e vicende. Il narrare di Pietro Speranza è genuino, schietto, sicuro. Egli si destreggia con grande abilità e straordinaria diligenza nell’esaminare i protagonisti, cogliendone ogni dettaglio e rendendoli profondamente umani. Mantova: Centro per la sterilità di coppia: Ersilia e Pietro Pavesi conoscono Patrizia e Mariano Ferrari nell’ambulatorio del Direttore del Centro. Le due coppie, unite dagli stessi problemi, progettano di trascorrere le vacanze estive insieme fra il Cilento e la Valsesia. Inizia un viaggio particolare, si innescano dubbi e gelosie. Un viaggio rivelatorio, se si vuole, alla scoperta anche dei desideri e delle paure di ciascuno dei protagonisti. Un percorso alla ricerca del sé più profondo che pian piano porta fa emergere ciò che è nell’anima dei personaggi, grazie ad uno scavo psicologico che l’autore sapientemente porta alla luce nel suo dire accattivante e ricco di particolari. Da quest’opera traspare il grande impegno di Pietro Speranza nel narrare di fatti e problematiche attuali, in questa nostra vita freneticamente vissuta, carica di problemi, incertezze e dubbi. Un romanzo da non perdere. Nicla Morletti
Anteprima del libro
Pietro: ho trentotto anni…
Ho trentotto anni e sono incavolato per la sega che mi aspetta. È inutile nascondere l’irritazione causata dalla procedura medica e dalla presenza di tante persone consapevoli dei miei obblighi. Ersilia, seduta accanto a me, di tanto in tanto mi stringe il braccio indicando con un mezzo sorriso gli altri coniugi sventurati. Che cosa ci trova di così comico? Sento di odiarla. A guardare meglio, il suo è un riso amaro con cui tenta di esorcizzare il procedimento d’inseminazione. Scruta le altre donne, paragonandone il bacino al proprio, quasi fosse una gara nella quale vince il più bello. Nel suo cuore sta pregando, come tutte le altre, di essere una delle fortunate: lo specialista, infatti, ha affermato che gli esiti positivi si aggirano intorno al trenta per cento. È il nostro secondo tentativo. Speriamo l’ultimo. Continuo a fare l’indifferente mentre osservo il lungo corridoio, severo come il ginecologo che sta guidando il desiderio di maternità di mia moglie.
Per quanto mi riguarda, credo di poter sopravvivere anche senza figli.
Studio di nascosto le altre coppie e scopro che siamo gli unici ad attendere il nostro turno su due sedie. Di certo è un buon segno. Gli altri indugiano, silenziosi e vergognosi, appoggiati lungo i muri spogli del corridoio al quinto piano dello stabile. Ogni coppia se ne sta separata dalle altre, quasi temesse di essere derubata del figlio non ancora concepito o almeno della propria quota di probabilità.
Meno male che un bel sole spande sui muri una luce dorata, ammorbidendo l’angoscia delle giovani donne presenti, ognuna delle quali non trova una risposta alla medesima domanda: “Perché è capitato proprio a me?”. Sorrido dei miei pensieri sconclusionati, ma non muovo neanche il più piccolo muscolo della faccia. Apro il giornale in cerca di una qualsiasi notizia capace di distrarmi. È inutile: il pensiero va sempre al sesso in solitudine che mi aspetta minaccioso. Torno a odiare mia moglie; tuttavia, non posso incolparla per la sfortuna che si accanisce contro di lei.
Una porta si apre e si affaccia un’infermiera corpulenta: è la prima volta che la incontro; ha i seni grossi che tendono la divisa, i capelli tinti e un’età indefinita. Si guarda in giro, come una professoressa che cerca di individuare l’alunno impreparato da chiamare alla lavagna, e poi, con il suo tipico accento mantovano, scorre l’elenco: «Il signor Pavesi, Pietro Pavesi».
Vorrei rispondere che non ho studiato, ma mia moglie mi spinge al dovere di uomo con un flebile gesto della mano. Mentre mi alzo dalla sedia spero, fino all’ultimo momento, di esserci incollato sopra. Purtroppo non è così. Gli occhi di tutti puntano verso di me e provo vergogna. Arrossisco. Mi avvio verso l’area appartata e incontro un giovane uomo che ha terminato, vittorioso, la sua battaglia. Sorride alla moglie trepidante davanti alla porta e non mostra il minimo segno d’imbarazzo. È un vincente.
L’infermiera giunonica, abbandonata l’aria da professoressa, si è trasformata nel gendarme che mi scorta alla sala delle torture. Mi squadra con occhio esperto e allarga le braccia con un gesto inaspettato e simpatico. È il suo modo di incoraggiarmi.
Entro nella stanza adibita: priva di finestre, è illuminata da una lampada al neon, algida. Ormai la conosco bene. Al centro ha una semplice poltrona e un tavolinetto con qualche giornalino di donne nude, lasciato da chissà chi. Sulla parete di fronte, un lavandino, uno specchio e un rotolone di carta completano l’arredo. Sopra la porta, scopro infine un grosso orologio. Rido nervoso, mentre mi chiedo: “Quanto tempo mi sarà concesso, questa volta?”. Capisco di appartenere alla categoria dei perdenti. Torno a odiare mia moglie, ma ho sempre creduto di amarla e accetto il sacrificio per lei. Non ho più le idee chiare su ciò che voglio veramente. Mi lavo le mani e… Massima igiene! Mi ha raccomandato il dottore, il giorno prima. Non so che fare, o, meglio, lo so benissimo, ma non riesco a prendere l’iniziativa: eppure, da ragazzo, vi ho profuso sempre molto impegno. Prendo un giornale porno e mi avvio alla poltrona; mi siedo, e scatto subito di nuovo in piedi, ricordandomi dell’igiene richiesta. Poso il settimanale toccato da mani immonde e mi rilavo con il sapone disinfettante. Strappo due pezzi di carta e torno al mio posto con il contenitore sterile, ma non riesco a concentrarmi, poiché il pensiero corre sempre al ricordo di quella mattina.
«Siamo rimasti soli».
Un’affermazione amara la sua e, apparentemente, senza senso, pronunciata con voce incolore nel buio quasi totale della stanza da letto. Ersilia, appena uscita dal sonno, cominciò a parlare senza accertare che io l’ascoltassi. Ero ancora nella fase del risveglio mattutino e avevo iniziato appena a muovermi. Afferrai subito il significato. Le sue parole, che, di sicuro, concludevano una lunga meditazione notturna, mi colpirono come una frustata. Restai immobile fingendo di non aver sentito; ma lei mi conosceva bene. Non si scosse.
«Siamo rimasti soli» ripeté con lo stesso tono dopo qualche minuto. E cambiò il corso della mia esistenza.
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Senza nome
di Pietro Speranza
2013, 264 p., brossura
Europa Edizioni (Roma)
Mi sembra un libro davvero interessante soprattutto per la tematica trattata. Adoro leggere libri che parlano di cose attuali, vere e reale. Quelle che ci toccano dentro e ci fanno pensare, emozionare e soprattutto pensare e riflettere su ciò che molte persone devono affrontare.
La lettura mi sembra fluida.
Mi piacerebbe molto leggerlo.
Interessante il tema molto attuale e la storia coinvolgente. Mi ero già immersa nella lettura dell’anteprima ma purtroppo è durata poco! Sono curiosa di leggerlo interamente!
Tema assolutamente moderno ed attuale… tante coppie non sanno o non possono affrontare questo problema che a volte fa naufragare i matrimoni…
Regalo ad un amica, talmente entusiasta che me lo ha prestato x leggerlo…tematica toccante espressa con serietà e sensibilita’. Rimane molto
interessante sicuramente da leggere mi piacerebbe riceverlo,grazie